“Formulando queste accuse, non ignoro che mi metto sotto il tiro degli articoli 30 e 31 della legge sulla stampa del 29 luglio 1881, che punisce le offese di diffamazione. Ed è volontariamente che mi espongo… Che si osi dunque portarmi in assise e che l’indagine abbia luogo al più presto. Aspetto”
Sul socialista “L’Aurore” del 13 gennaio 1898 campeggiava il titolo:
“J’accuse…!”.
Émile Zola in uno degli editori più famosi mai scritti lancio accuse come pietre, pietre scagliate nello stagno dell’ipocrisia che pur cadendo apparentemente nel nulla con le loro onde concentriche porteranno a riaprire il caso dell’ufficiale alsaziano Alfred Dreyfus accusato di passare documenti riservati al Secondo Reich di Guglielmo I.
Le conseguenze di questo atto di coraggio giornalistico saranno notevoli, verrà portato in tribunale, condannato ad un anno di reclusione per aver fatto i nomi di chi accusava senza nascondersi dietro un dito, perché il suo atto fu prima cosa un atto di testimonianza. Non una semplice opinione come se ne leggono tante anche oggi. Per venire a tempi più recenti si potrebbe citare il sacrificio del giornalista, politico e attivista russo Alexei Anatolievich Navalny che sopravvissuto ad un tentativo di avvelenamento da parte del Cremlino decide di tornare in Russia per sottoporsi ad un processo farsa ed essere inghiottito nella versione russa dell’isola del Diavolo che accolse Dreyfus.
A parte l’evidente nesso creato dalla vicenda processuale potrebbero sembrare sin troppo sottili i nessi che legano questi tre personaggi. In realtà se si vogliono comprendere le vicende che ruotano attorno al giornalista e hacker australiano è necessario confrontarlo con altre storie, altre battaglie per la libertà di stampa e seguire il fil rouge del giornalismo che lega tutto insieme.
La storia è complessa e va scorporata in tre componenti separate e distinte. In primis esiste una vicenda processuale apparentemente lunga e confusa che risulta essere al contrario l’aspetto più lineare e meno divisivo nel giudizio su Assange.
Da una parte abbiamo le chiare e inconfutabili accuse americane di aver divulgato informazioni riservate. Gli Stati Uniti adottano un modello per la classificazione dei documenti chiamato Bell-Lapadula sviluppato negli anni ‘70 per il Dipartimento della Difesa che classifica i documenti secondo la dizione che tutti conosciamo di Top Secret, Secret, Confidential e così via. Assange in qualità di caporedattore di Wikileaks ha avuto accesso non autorizzato a documenti classificati e li ha pubblicati. Nulla da aggiungere.
Dall’altra le accuse di stupro formulate in Svezia da due diverse donne sono decisamente più controverse, visto il loro poggiarsi su una interpretazione “particolare” della legge nord-europea e in buona sostanza sono sempre apparse, non a torto, un tentativo di ossequio agli Stati Uniti finalizzato a rendere possibile l’estradizione di Assange. Le denunce svedesi hanno quindi dato il via ad una reazione a catena che ha portato l’Ecuador a dichiararlo rifugiato politico, in ottica anti-americana (Londra 2012) sino all’insediamento di un presidente meno ostile all’impero a stelle strisce, Lenin Moreno (2019). Passando sopra la sottile ironia di nomi e cognomi tra rivoluzionari e arbitri corrotti, è fuor di dubbio che la vicenda processuale sia l’aspetto attorno al quale sostenitori e avversatori di Assange dovrebbero trovarsi uniti nel denunciare una “interpretazione fuorviante della legge” sempre per citare Zola.
Se in tal senso la definizione di vittima può essere calzante, decisamente più controverso è il tentativo di definire la vicenda di Assange come una questione di giornalismo e attentato alla libertà di stampa.
In un gioco di rimandi alla figura del giornalista non si può non spiegare il rapporto tra Assange e libertà di stampa riportando alla memoria quanto accadde a partire dalla notte del 17 giugno 1972 (quando) al 2600 Virginia Ave a Washington, DC, (dove). Un giornalista inciampa in una rapina (cosa) commessa da un gruppo di personaggi che da subito appare sospetto (chi) per via delle attrezzature utili più allo spionaggio che ad un furto (come). Avendo bene in mente le cinque domande cardine del giornalismo, l’indagine viene portata avanti recuperando documenti riservati, incontrando fonti, informatori e “Deep Throat”, la fonte riservata che aiuterà Bob Woodward e Carl Bernstein ad unire le tessere sino a vedere sullo sfondo la figura del presidente Nixon.
Un’indagine che diventa giornalismo:
nel rispetto dei fatti;
nell’assunzione di responsabilità;
nella valutazione dei documenti;
nella verifica della veridicità dei documenti;
nel decidere cosa sia giusto pubblicare e cosa vada tenuto riservato per non causare danni a persone innocenti;
e infine nella protezione delle fonti.
Non dovrebbe quindi stupire che solo 30 anni dopo e solo per sua stessa ammissione scopriremo il nome di “Gola Profonda”. Inevitabile che la libertà di stampa venga messa in discussione, ma in un sistema democratico e garantisca come è quello in cui felicemente possiamo vivere, essa prevale e le inchieste possono veder la luce.
Questo è il giornalismo.
Wikileaks suona uno spartito diverso. Nella creatura di Assange non c’è inchiesta giornalistica, non c’è valutazione, non c’è attenzione ai danni che si possono causare, e soprattutto non c’è protezione della fonte. Emblematica è la vicenda di Chelsea Manning il sofferente soldato che ruberà i documenti riservati, verrà arrestato e condannato aggravando la sofferenza di una persona già sofferente. Per Assange tutto questo pare non aver alcuna importanza. Wikileaks è un semplice database dove vengono riversati documenti, senza garanzia che siano tutti, senza garanzia di veridicità e senza alcuna assunzione di responsabilità.
Innegabile che all’inizio ci sia stata una collaborazione con la stampa internazionale e che Wikileaks abbia contribuito a fare luce su fatti gravi, ma quella che era la via del giornalismo è stata velocemente abbandonata per una pubblicazione indiscriminata che ha derubricato il ruolo della libertà di Stampa e del Giornalismo a quello di semplici comparse.
Il documento ha smesso di essere importante per dare sostanza ed autorevolezza ad un racconto, ad una denuncia ed è diventato fine a se stesso, autoreferenziale, solipsista.
E se questo potrebbe essere anche accettato come un obiettivo di trasparenza democratica senza compromessi, a stridere è lo spessore etico della figura stessa di Assange, il terzo aspetto da valutare.
Quando si lotta per la libertà, le parole rimangono vuote e prive di sostanza, se chi le pronuncia, chi le scrive non se ne fa testimone con il proprio comportamento, con il proprio corpo e a volte con il proprio sangue. Navalny si immola ad una condanna già scritta, perché quella è sostanza; Mi condannate perché oso dire la verità. Rosa Parks organizza il suo arresto, lo chiama a sé e si fa arrestare perché in quel l’arresto c’è il grido di una comunità; Zola, lo sconosciuto di Piazza Tienanmen, Jan Palach e la lista potrebbe allungarsi a dismisura dei nomi di tanti giornalisti che hanno pagato di propria tasca il prezzo della libertà, il prezzo delle proprie battaglie, il prezzo della libertà di stampa.
Certo a differenza di Edward Snowden, paladino della privacy aiutato a fuggire alla corte di Putin(!), Assange si è limitato ad imboscarsi presso l’ambasciata Ecuadoriana per evitare il processo che Zola invocava su di sé, ma la lotta per la libertà pretende testimoni, non oratori. Gli anni ruggenti di Wikileaks sono gli anni in cui prende forma la dottrina Gerasimov di cui oggi vediamo chiari i frutti. L’Information Warfare si fa strada tra le vite delle persone, siamo vittime di una guerra e non ci accorgiamo di esserlo. Il campo di battaglia è l’informazione e noi abbiamo bisogno di testimoni, non di falsi miti o hacker senza nome.
Un commento su “L’hacker Assange: Anonimato e Testimonianza”
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